lunedì 25 maggio 2009

Gyanganj, Shambala o Shangri-la: terra di esseri immortali

L'amico Wind, Grande attivista nella pratica del Kriya Yoga e dell'India in generale, mette in news su Altrogiornale questo bel post, di sua traduzione.


Gyanganj, Shambala o Shangri-la: terra di esseri immortali

Nascosta in una vallata nella remota Himalaya si dice ci sia Gyanganj, la terra degli immortali. Chiamata Shambala, Shangri-La o Siddhashram, i credenti affermano che sia il celeste regno che modella il nostro destino.

Fu durante un'incontro improvvisato con degli intellettuali e dei ricercatori presso la casa a Delhi del poeta Punjabi Amrita Pritam, in India, che Sai Kaka rivelò disinvoltamente: "Sono stato a Gyanganj numerose volte durante l'ultima decade." O meglio egli è stato portato lì ogni volta da un saggio per istruzione spirituale ed immortale.

Questa istruzione deve essere di alto livello per i 50 e più, che il barbuto e bianco vestito Sai Kaka ha fin'ora insegnato a chiunque lo avesse approcciato. L'uomo da Sangli nello stato Indiano sud-occidentale del Maharashtra, che studiò con Swami Muktananda e Nisargadatta Maharaj, è sempre in movimento avendo scelto di non entrare in un ashram o in un'organizzazione.

Quando viene messo in discussione, egli risponde in puro Hindi che Gyanganj esiste su un differente piano, una più alta dimensione, una shambala. Ma, che sì, su un livello grossolano ha una locazione parallela in posti conosciuti sulla terra. Così, c'è un territorio segreto nel nostro centro, che è improbabilmente sfuggito a tutte le osservazioni geografiche? Un posto che fornisce l'ambiente e le opportunità perfette per un'evoluzione spirituale? Un posto da cui migliaia di esseri saggi immortali e perfetti pianificano l'evoluzione della razza umana, anzi, di tutti gli esseri senzienti?

Nella profonda terra realtà empirica o solo cattiva fantascienza?

Bene, la credenza che un tale posto esista, camuffato e secluso da qualche parte nella profondità dell'Himalaya, è filtrata attraverso le tradizioni Indiane e Tibetane. Ci sono moltissimi riferimenti contemporanei a ciò, così come testimoni alla stregua di Sai Kaka che dichiarano di esserci stati. La credenza di una remota vallata di immortali sembra essere a capo della sua immortalità. In Tibet, questa terra leggendaria di illuminazione spirituale è conosciuta come Shambala, un termine Sanscrito che per i Tibetani significa "la sorgente della felicità". Non è il paradiso in terra ma un regno mistico che sorveglia i più sacri ed antichi insegnamenti del mondo, incluso il Kalachakra (Ruota del Tempo), il pinnacolo della seggezza Buddista.

I Buddisti rintracciano Shambala a Gautama Buddha il quale si dice avesse assunto la forma della deità Kalachakra prima della sua morte e che abbia rivelato i suoi più alti insegnamenti ad un gruppo di adepti e dei nel sud dell'India. Tra questi vi era il Re Suchandra, il primo re di Shambala, che scrisse dei sermoni e se li riportò con sè. Svariati testi Buddisti forniscono istruzioni per trovare Shambala, anche se le direzioni non sono chiare. Si presume che solo gli esperti Yogi la troveranno.

Il regno è nascosto nella nebbia delle nevi di montagna e può essere raggiunta solo volandoci su con l'aiuto dei siddhi o poteri spirituali. Il racconto di James Hilton, "L'Orizzonte perduto", parla del remoto regno di Shangri-La, ispirato dalla leggenda di Shambala. Shangri-La ha cominciato allora a significare un remoto, bellissimo, immaginario posto dove la vita rasenta la perfezione; un'utopia, in breve.

Shambala non era un frutto dell'immaginazione per Madame Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica. Ella la considerava la dimora dei mahatma o degli adepti spirituali, nelle montagne del Tibet, Mongolia ed India. Loro vivono attraverso i secoli in varie incarnazioni, perpetuando la conoscenza delle passate, più spiritualmente avanzate, civilizzazioni come gli Egizi ed i Greci, a lo insegnano agli allievi meritevoli. Uno di quegli adepti, Koot Hoomi (o Kuthumi Baba, dell'età di almeno 500 anni) era il guru della Blavatsky. In India, questa segreta, sacra terra è conosciuta come Gyanganj o Siddashram. Riferimenti a Gyanganj o ad ashram segreti possono essere trovati nelle scritture Induiste come il Ramayana di Valmiki ed il Mahabharat. il guru Nanak la chiamava Sach Khand.

Più vicini al nostro tempo, Paramahansa Yogananda, nella sua celebrata "Autobiografia di Uno Yogi" scrive dell'incontro con il guru del guru del guru, Mahavatar Babaji, un'immortale di lunga età che appare sempre giovane e continua a vivere nella sezione Himalayana dello Badrinath. Babaji è anche apparso a qualche altro avanzato ricercatore e si pensa che sia connesso con Gyanganj.

Per comprendere il racconto di Gyanganj, Sai Kaka ci dirige verso le scritture di Gopinath Kaviraj che morì nel 1976. Un ex preside dell'Università Statale di Sanscrito di Benares, Kaviraj scrisse un libro intitolato Siddahbhoomi Gyanganj, che èstato tradotto dal Bengali in Hindi e pubblicato recentemente da Bharatiya Vidya Prakashan.

La fonte delle informazioni principale di Kaviraj era il suo guru, Swami Vishudhananda, un Bengali che si trasferì a Benares, una sacra città dell'India. Si crede che Vishudhananda abbia soggiornato molte volte a Gyanganj dove apprese il Surya Vigyan o scienza solare. Il Surya Vigyan gli diede il potere di manifestare oggetti o trasformare un oggetto in un altro manipolando i raggi del sole.

Nella sua Autobiografia, Yogananda descrive il suo incontro con Vishudhananda a Calcutta e testimoniando la sua caratteristica di creare ogni tipo di profumo a richiesta nell'aria. Paul Brunton nel suo libro "La ricerca nei segreti dell'India" scrisse che non solo testimoniava che Vishudhananda creava i profumi, ma che ridiede la vita ad un uccellino.

Il Dr.Narayan Dutt Shrimali, un astrologo-tantrico-guru con base a Jodhpur che pubblica Mantra- Tantra-Yantra Vigyan, un mensile Hindi, afferma che fece i suoi sadhana nel Siddhashram, dove il suo nome era Nikhileshwarananda. E' lì che acquisì i suoi occulti poteri. Più in là il suo guru gli disse che volevano che tornasse alla sua vita familiare e che spargesse la saggezza di Siddhashram. Le letture che egli pubblica promettono che la sua iniziazione è il passaporto per Siddhashram. Ad ogni modo egli rifiuta di rivelare ulteriori dettagli sul suo collegamento con Gyanganj.

I racconti su Gyanganj di Shrimali e Kaviraj sono similari. Essi la allocano grossmodo su di un'altipiano nel nord del Kailash-Mansarovar in Tibet. Copre un'area di molti chilometri quadri ed è contorniata da laghi (o fossati) di acqua cristallina. C'è un ponte levatoio curvo che collega Gyanganj al nostro mondo. Alla fine di questo ponte levatoio c'è un congegno che permette di sollevarlo quando richiesto. Questo congegno si utilizza per mezzo del Surya Vigyan. Kaviraj nomina molti altri posti, sparpagliati nell'India, del territorio di Gyanganj.

L'area delle rive del fiume Alaknanda è dove vagano i siddha. L'alveo di Mandakini è anche molto misterioso: giganti spirituali attraverso i secoli hanno osservato celestiali vedute. Così, l'intera regione da Rishikesh a Kailash e da Yamunotri a Nandadevi è terra dei siddha. Nel Bihar, molti siddha Buddisti frequentano la montagna dello Giridhkoot. Il Nilgiris e la Srisailam nel sud dell'India sono anche conosciute come rifugio di segreti ashram.

Le colline di Arunachala nel Tamil Nadu, dove Ramana Maharishi creò il suo ashram, è un altra terra dei siddah. Nella zona occidentale, Girnaur ha visto l'attività dei siddha. Sono inclusi lì gli insegnamenti nelle arti e nelle scienza inclusa la medicina, il rasayan shastra, la musica e l'astrologia. Gli Indiani, ovviamente, non hanno il monopolio su Gyanganj. Persone da altre parti del mondo vivono lì inclusi molti lama Tibetani.

Sai Kaka aggiunge che Gyanganj agisce su tutti e tre i livelli: "A livello spirituale, fa funzionare l' universo. A livello celestiale, gli elementi terra e acqua sono assenti, abilitando una forte attività. A questo livello, Gyanganj impatta su molti piani e sugli esseri che sono lì. Sul piano più grossolano," prosegue, "i siddha di Gyanganj forniscono una guida agli esseri umani per iniziare i cambiamenti nella spiritualità ed anche nelle questioni sociali. Supponi che un ricercatore sia bloccato da qualche parte nel suo percorso, potrebbe essere guidato nella forma di un'intuizione, o qualche kriya innescato nei suoi corpi sottili o il suo guru sia ispirato a fare il necessario."

Sai Kaka argomenta dalla sua esperienza e dalla sua conoscenza di Gyanganj affermando che va tutto bene indipendentemente da ciò che sta accadendo negli affari umani. "Prima la sofferenza nel mondo mi rendeva emotivo, mi addolorava e mi riempiva di compassione. Ora realizzo che giusto e sbagliato, buono e cattivo esistono su un piano relativo della mente, dell'intelletto e dell'ego e sono l'interazione delle tre guna. Dal punto di vista di Dio, c'è la nondualità. La creazione e la dissoluzione sono parti del continuo flusso."

Sebbene non ci possa essere nessuna evoluzione in un flusso, Sai Kaka ammette che Gyanganj è coinvolta nella trasformazione della coscienza del mondo. Forse con una coscienza collettiva in aumento, Gyanganj sarà sempre più manifesta e facilmente accessibile agli esseri umani.

Per coloro che non vorrebbero visitare il posto dove gli immortali vivono.

By Parveen Chopra

Tradotto da windrunner per Altrogiornale.org

Brahmacarya, dal piacere alla gioia


Sentire la presenza divina in ogni esperienza per conferire pieno significato alla nostra esistenza


Il termine Brahmacarya viene spesso tradotto con «continenza» o «astinenza sessuale»: secondo la visione religiosa tradizionale infatti è indispensabile la castità assoluta per poter disporre delle energie che indubbiamente e normalmente si disperdono nell'atto sessuale ai fini della propria crescita spirituale.

Ardua impresa, tuttavia, la castità; se non viene vissuta con consapevolezza può facilmente trasformarsi in sofferenza, senso di esclusione dalla vita ed impossibilità di sperimentare ciò che Dio ha concesso all'uomo per uno scopo ben preciso.

Ogni essere vivente infatti ricerca l'unione con il suo opposto e complementare per tentare di ricreare inconsciamente il rito cosmogonico; l'uomo inconsapevole utilizza l'accoppiamento a scopo di gratificazione, per sentire il fluire della vita, per procreare, per esprimere un' energia naturale che però, se non viene trasmutata, andrà dispersa.

L'essere umano si avvale della sua mente e della sua immaginazione per intensificare ogni piacere, rimanendo in tal modo rinchiuso nella prigione della sua ignoranza; non si rende conto della sacralità di un atto che nella sua natura essenziale riproduce l'unione dei principi cosmici: il principio spirituale immutabile ed eterno e la sua potenza, il principio che genera la materia; dalla loro unione nasce l' universo.

Per arrivare a questa visione è necessario mantenere il cuore e la mente puri, liberi dall'attaccamento, dal desiderio, dalla possessività; la fretta e l'improvvisazione vanno banditi, occorre una seria preparazione materiale e spirituale.

Lo Yoga ed il Tantra insegnano come arrivare a tramutare il piacere in gioia e a dissolvere quella barriera formata dalla mente inferiore, che irretisce in una ragnatela mortale tutte le nostre sensazioni e i nostri pensieri; solo una mente purificata può dunque giungere oltre la dimensione terrena e percepire l'eternità dell'atto amoroso, la fusione delle due polarità che arriva a ricreare l'Uno.

Bisogna imparare a scorgere il Dio (o la Dea) dietro al volto umano, percepire una coscienza che è il riflesso della «eterna luce» che si esprime attraverso le forme - con tutte le loro limitazioni - e che rappresenta quella polarità che l'uomo va cercando, nella sua inconsapevolezza, per ricreare l'atto cosmico.

Il piacere così viene sublimato; l'opposizione della mente si dissolve e la gioia di ritrovarsi Uno inonda la coscienza.

Brahmacarya è il quarto yama (restrizione, astinenza o armonizzazione delle relazioni interpersonali) negli Yogasutra di Patanjali e più precisamente significa «vivere in Dio»: consiste nel sentire la presenza divina in ogni esperienza ed in ogni momento, trasformando ogni azione in un atto sacro che conferisce pieno significato alla nostra esistenza; qualsiasi eccesso è contrario all'ideale del brahmacârin, che sia mangiare, dormire, parlare: il Brahmacarya affranca l'uomo dalla schiavitù dei sensi.

L'essere umano è oppresso dall'angoscia, attanagliato dell'incapacità di arrivare a comprendere il significato della vita; invece di soffermarsi a cercare si rivolge all'esterno, cercando il piacere in ogni situazione: non mangia per mantenere in salute il corpo, non si accontenta di soddisfare la fame naturale ma cerca ogni mezzo per stimolare un palato già eccitato; ed è così per ogni esperienza, compreso il sesso.

Dietro l'eccitazione e la stimolazione vi è il dolore, la sofferenza di una vita vissuta correndo, senza riflessione e chiarezza.

«Chi sono io?». Se la risposta è: «Sono il mio corpo» allora tutto è giustificato.

L'uomo ha a disposizione ricchezza, potere, tecnologia avanzata e questo lo porta, nella sua presunzione, a sentirsi superiore agli altri animali; è indubbiamente intelligente, ma quale uso fa della sua intelligenza? Nonostante la ricchezza, alla fine della vita si ritrova vuoto, povero.

Perché non fermarsi? perché non dare risposta alle domande che sorgono dall'animo? Solo ascoltando l'«altro», l'essere umano ha la possibilità di percepire le forze cosmiche che sostanziano ogni essere e di giungere a comprendere il significato dell'esistenza.

di MP

Fonte: http: yoga.it

domenica 17 maggio 2009

Il Karma Yoga

IL KARMA YOGA - Di Guido da Todi

Ogni pensiero e azione del passato ci legano inesorabilmente al nostro karma odierno, tuttavia proprio attraverso la stessa azione, quando è compresa ed agita in modo corretto, è possibile ricongiungersi con il Tutto...


Vivekananda considerava l’essenza del Karma Yoga la più nobile delle Vie Spirituali. La Bagavadh Gita è un compendio praticamente esclusivo di questo Yoga. Perché? In effetti, una delle caratteristiche fondamentali degli insegnamenti indù è il buon senso e la praticità immediata, anche se ciò non invalida l’altissima natura delle loro tradizioni.

Non è possibile afferrare il significato della legge del karma, se almeno non si è – in misura bastevole – intuita la natura delle cose universali: che è unità fondamentale, olismo ininterrotto, identificazione totale dell’apparente frammento con il tutto. La ripercussione di ogni atto e di ogni pensiero prodotti da noi avviene e si risolve, alla fine, in noi stessi solo per il fatto che non esiste soluzione di continuità fra l’illusione di una vita distaccata dal resto dell’esistenza e quest’ultima. Il gioco sottile e complesso della legge del karma, tuttavia, non costituisce lo scopo principale del presente articolo; dovrà, forse, venire rimandata ad uno dei prossimi.

Uno degli aspetti del buon senso della filosofia indiana si riferisce al suo modo di interpretare la celata fisionomia del presente ambientale d’ognuno di noi. La legge della reincarnazione costituisce il formidabile serbatoio di una totale fecondazione di cause, da parte dell’individuo, che si annodano agli effetti evidenti di questo suo presente ambientale. In poche parole, l’io è il motore di ogni propria azione; ma, una volta data la spinta che la produce, l’azione stessa diviene il motore dell’io. Si tratta di un gioco delle parti assolutamente irrinunciabile.

Ecco, se potessimo scattare l’istantanea della vita di uno qualsiasi tra di noi, quanto verrebbe alla luce – esotericamente parlando – sarebbe un prodotto complesso e molto difficile da scomporre, nei suoi elementi costituenti. Immaginate una pesca acerba, e supponete di volere distaccare con le vostre stesse mani il suo nocciolo dalla polpa ancora verde. Il risultato di questo atto mostrerebbe la parte dura e centrale del frutto, ma con massicci frammenti di polpa che fanno un tutt’uno con esso; tanto è praticamente impossibile separare il centro dalla periferia, quando i tempi non sono quelli giusti. L’esempio – evidentemente grossolano – indica, con una certa precisione, il rapporto che ognuno di noi ha con il suo attuale karma. Volere rinunciare ad esso, in modo inconsulto, violento ed irrazionale costituirebbe un’azione simile a quella che abbiamo appena immaginato, in riferimento alla pesca acerba.

Il nostro karma attuale costituisce il baricentro ultimo delle forze e delle azioni emesse in un passato, più o meno lontano, e la spinta trainante che conduce gran parte della nostra esistenza. Il dharma, invece, è l’atto mentale che ne riconosce la fisionomia e si adatta ad essa, con il proprio comportamento quotidiano. In effetti, questa è già una notevole indicazione per l’individuo che voglia intervenire nel proprio destino.

Qualunque malumore, generato dalla nostra insoddisfazione per la vita che conduciamo, per il lavoro che facciamo, per l’ambiente in cui viviamo rappresenta un’energia inutilmente sprecata. In modo giusto, o errato, siamo stati noi gli unici responsabili di quella soluzione latente di forze, che stanno rapprendendosi attorno a noi ed in noi. Non è possibile liberarcene, almeno in modo violento.

A questo punto non risulta inutile un cenno a quelle azioni ribelli, che molti commettono sovente. Essi abbandonano, all’improvviso, la compagna, o il compagno; i figli; il lavoro che li delude. Insomma, staccano il contatto con la ruota che gira in una determinata direzione, e – come un elettrone che cambia orbita – si incasellano in un altro vortice di vita; nella creazione di nuove abitudini, di una nuova esistenza. Ma, la ruota continua a girare... Essi non hanno il potere di interrompere quel flusso di energia in cristallizzazione operativa di quanto hanno creato nel loro passato. In tal modo, provocano altro karma; ma, non eludono quello antico; che si ripresenterà, prima o poi. E la loro fuga si sarà risolta in un bel nulla di fatto.

Cosa dice, allora, in proposito, la filosofia indiana del Karma Yoga? Cosa dice Vivekananda? E cosa insegna la Gita? Intanto – e ciò è un fondamento di altissima rilevanza spirituale – che non importa, nella vita, desiderare disperatamente un destino di suprema nobiltà formale; e neppure temere di esprimerci in azioni che consideriamo mediocri e prive di smalto e di significati profondi. Nella vita importa solo capire e compiere ciò che è giusto fare, in quel momento.

La suprema nobiltà formale, lo smalto e cos’altro si possa desiderare, magari, diverranno una conseguenza di quanto è opportuno, per il momento, realizzare, nella giusta direzione, ora e adesso. Solo in tal modo riusciremo a costruire quel canale in cui rosolerà e si consumerà la pietra da macina che portiamo appesa al collo: il nostro karma pesante e, spesso, doloroso... Attenzione, ciò non vuol dire accettare e subire passivamente, ed in modo beota, qualunque costrizione la vita ci stia imponendo. Indica solo la saggezza e l’abilità di saperci svincolare, nell’unico modo armonico e sano, da una stretta soffocante, che rischia, spesso, di annientarci, nel corso di questa nostra esistenza.

Tuttavia, abbiamo parlato di unità del tutto. Il Karma Yoga afferma che ognuno di noi rappresenta una tessera parziale di un universo illimitato. Chi si oppone a questo dato di fatto, oppure non lo conosce, è destinato ad una espressione tronca del Sé: in poche parole, all’infelicità.

L’intera tradizione del vero spiritualismo tende alla sperimentazione della Vita Totale. Aderire al nostro dharma, ed accettarlo con cristallina consapevolezza delle motivazioni cosmiche che si trovano dietro ad esso, per incanto ci unifica alla Vita Totale; verso la quale non opponiamo più, di conseguenza, alcuna resistenza attiva, o passiva. Ogni senso delle dimensioni, allora, risulta impossibile a comporsi. Non esiste, qui, un più grande, o un più piccolo. Esiste solo quel componente che, saldandosi con l’intero, fa confluire in esso ogni tensione ed ogni opposizione personale. La parte si accorge di essere divenuta un' accentuazione palpitante del tutto. Di essere il tutto. E di gioire, tramite l’esecuzione di un agire personale, della gioia impersonale, che possiede delle risonanze prive di limite e di estensione.

Il karma yoghi vive in discesa ogni suo atto quotidiano; ossia, senza opporsi ai doveri che incombono sulla propria vita, e che egli ha tutti riconosciuti, nell’attimo della sua originaria espansione di coscienza. In tal modo, non soltanto esaurisce e scioglie tutti i legami reincarnativi che lo avvincevano ai tre mondi dell’illusione formale, ma, pure, salda ed unisce la tessera che rappresenta il frammento personale del mosaico al grande affresco cosmico, di cui quella è parte costituente.

Potrei esprimervi la mia personale esperienza, in proposito. Non credo possa esistere gioia più acuta e indicibile del sentimento che invade l’animo, quando si osserva il proprio io, mentre, con la massima partecipazione, aderisce all’intero dharma della sua vita: dalle minime incombenze, all’arco totale del proprio complesso ciclo reincarnativo.

Si narra di un giovane yoghi indù, il quale passò degli anni in meditazione, nel folto di una foresta. Un bel giorno, egli guardò con fastidio un uccello, che lo disturbava con il suo canto. Ed il volatile cadde a terra fulminato. Lo yoghi stabilì, allora, di aver raggiunto dei poteri straordinari, e che era giunto il momento di tornarsene fra gli uomini. A sera, giunto ai limitare di un paese, bussò ad una casa modesta, per chiedere da mangiare. La donna anziana che gli aprì gli disse subito:" Attendete, sadhu, che io mi occupi dei bisogni del mio sposo. Tra poco tornerò a voi, e vi offrirò la cena..." La risposta parve poco rispettosa allo yoghi, che, evidentemente, si attendeva la priorità su tutto e tutti, visto il rango spirituale che riteneva di essersi guadagnato. E, senza accorgersene, guardò con sguardo seccato la donna.

"Non crediate che io sia un uccello, per potermi fulminare, sadhu! – gli ribatté quella – "Ho dei doveri da compiere. Ma state pur tranquillo, che immediatamente dopo toccherà a voi..." L’uomo rimase folgorato. Come sapeva quella anziana signora la storia dell’uccello? A cena, con cautela, glielo domandò. "Vedete, sadhu, il mio maestro mi ha insegnato che, compiendo esattamente tutti i miei doveri con gioia e con dedizione, mi sarei fusa con l’universale. Questa è la ragione per cui ho raggiunto la luce e l’unione con Dio..." La storia continua, ma voglio interromperla per indicare che l’essenza del Karma Yoga è tutta qui. Quando se n’è afferrato lo spirito, ognuno di noi diviene consapevole del canotto minuscolo che rappresenta il suo io, circoscritto dal proprio karma reincarnativo. Egli sente e vede i confini di questo karma, con una vivezza incredibile.

Aderendo al suo dharma, con gioia e distacco, vive, allora, una tra le massime esperienze metafisiche. Pur se ancora stretto ai legami dei tre mondi, prova già intensamente la completa liberazione da essi e da tutto ciò che è relativo. Ogni minuto della sua giornata è, in lui, un atto sacro di meditazione, di congiungimento a Dio, di eucaristico rapporto con la Realtà Una. Egli è oramai un karma yoghi. Egli è un liberato!

Tratto da: nonsoloanima.tv